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30 Settembre 2024
Alessandro Rudelli

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Dalla pandemia alla sindemia: orli catastrofici dell’adolescenza

SOCIO-SEMIOTICA

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Fascicolo 01

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Abstract Italiano

Si sviluppa un’analisi dell’adolescenza a partire dalla comparazione tra tre pandemie che hanno segnato la storia delle società umane: la peste nera, l’influenza spagnola e il Covid. Ci si sofferma per ciascuna di esse ad analizzare le caratteristiche dello spazio, dei corpi e del linguaggio. Si conclude il contributo con uno sguardo sul futuro dell’adolescenza dopo l’esperienza del Covid, col quale si traccia una distinzione tra pandemia e sindemia.

Abstract English

An analysis of adolescence is developed starting from the comparison between three pandemics which have marked the history of human societies: the Black Death, the Spanish Flu and Covid. For each of them we focus on analyzing the characteristics of space, bodies and language. The contribution concludes with a look at the future of adolescence after the Covid experience with which a distinction is drawn between pandemic and syndemic.

Abstract Français

Une analyse de l’adolescence est développée à partir de la comparaison entre trois pandémie qui ont marqué l’histoire des sociétés humaines : la peste noire, la grippe espagnole et le Covid. Pour chacun d’eux, nous nous concentrons sur l’analyse des caractéristiques de l’espace, des corps et du langage. La contribution se termine par un regard sur le futur de l’adolescence après l’expérience Covid, avec lequel une distinction est faite entre pandémie et syndémie.

Abstract Español

Se desarrolla un análisis de la adolescencia a partir de la comparación entre tres pandemias que han marcado la historia de las sociedades humanas: la Peste Negra, la Gripe Española y el Covid. Para cada uno de ellos nos centramos en analizar las características del espacio, los cuerpos y el lenguaje. La aportación concluye con una mirada al futuro de la adolescencia tras la experiencia del Covid, con lo que se distingue entre pandemia y sindemia.

SOMMARIO:
1. La vetrina dell’adolescenza – 2. L’adolescente: io è un altro – 3. Forme pandemiche dell’adolescenza – 3.1. I giovani ribaldi della peste nera – 3.2. Gli adolescenti soldati dell’influenza spagnola – 3.3. L’adolescenza espansa del Covid – 4. Dalla pandemia alla sindemia

1. La vetrina dell’adolescenza

Che un grazioso manichino messo in vetrina per esibire merci e catturare l’attenzione del cliente non sia un essere vivente è, salvo rare eccezioni[1], una indiscussa consapevolezza di senso comune. Alcune categoriche attribuzioni distinguono il manichino da altri artefatti imitativi della figura umana. Innanzi tutto esso deve porsi esplicitamente al servizio di uno scopo: la sua stessa ragione di esistenza è finalizzata e subordinata al raggiungimento dell’obiettivo definito sin dall’origine della sua creazione. Detto altrimenti: il manichino è un sottomesso[2]. In questo suo asservimento gli sono assegnate alcune coordinate: la struttura corporea da cui è definito, la collocazione spaziale nella quale è posizionato ed i significati che sono veicolati dalla sua muta espressività. Questi ancoraggi (ovvero le qualità afferenti a corpo, spazio e linguaggio) ne determinano le condizioni d’uso. Assegnare al manichino una struttura corporea comporta che la sua figura debba corrispondere a dei canoni di identificazione: la sua può ben essere una morfologia realistica, stilizzata o disumanizzata; può altresì presentificare una persona intera, una porzione umana o soltanto un frammento di organismo; ma quel che conta è che la sua composizione sia riferibile ad un modello antropomorfo entro il quale classificarlo.

Se la sua destinazione è propriamente quella di rendersi utile, il corpo del manichino deve giocoforza essere “operativizzato”: è corpo disciplinato per eccellenza. Il manichino richiede contestualmente uno spazio dedicato, ovvero un ambiente di accoglimento nel quale si possano tracciare relazioni tra ciò che è presente, sollecitare evocazioni con l’assente, costruire rapporti interni di prossimità e di distanziamento. Lo spazio abitato dal manichino ha un contorno, un “fuori” (nel caso della vetrina questa cornice è immediatamente percepita), ma dal suo interno promana una forza d’attrazione tesa a catturarlo subordinandolo a sé.

Uno spazio eterotopico[3] si potrebbe a buon titolo dire, nel quale la connessione con tutti gli altri spazi è piegata alla sospensione e alla neutralizzazione dell’insieme dei rapporti che essi stessi designano: lo spazio del manichino è affine, per dirla tutta, a quello carcerario o a quello cimiteriale o a quello ospedaliero.

Infine, per quel che riguarda la questione del linguaggio, occorre riconoscere che la funzione del manichino non è quella di offrire contenuti espressivi autonomi, ma è –all’opposto – quella di esibire i discorsi altrui che trovano in lui l’occasione per dichiararsi. Per quanto arricchito di vestimenti, seduttivamente ornato e apparentemente in grado di tessere una sorta di dialogo autonomo con chi lo sta osservando, il manichino è profondamente muto, nel senso che la sua destinazione è quella di esporre le intenzioni del suo compositore. È come una parvenza, una esibizione che devia da altri possibili significati, forse anche più autentici di quelli del vetrinista. Fortemente affine al simulacro[4] è quindi questo nostro manichino.

Ancora due fugaci annotazioni prima di ricapitolare. Prima suggestione di provenienza etimologica: la parola “manichino” deriva dall’olandese medievale manneken, termine con il quale si indicava un “piccolo uomo”, un “omiciattolo”. Un suffisso diminutivo rispetto a quella condizione finale di mann non ancora raggiunta per motivi di tempo (“non è ancora un uomo”) o per ragioni di inabilità (“non ha il valore di un uomo”).

Secondo inciso di natura storica: i primi manufatti destinati all’uso da manichino erano delle grandi bambole[5] realizzate all’uopo sin dal Trecento. Non faccia sorridere, ma ci è utile ricordare che le bambole hanno in sé una duplice natura: da una parte sono oggetti angelicati teneramente destinatari di coccole ed attenzioni; dall’altra parte sono perfide evocatrici di occulte potenze maligne. Il ricchissimo filone filmico e narrativo delle bambole assassine e demoniache non si è proposto come casuale sotto-genere horror[6], ma ha sviluppato una paura quasi ancestrale alloggiata nella duplice presenza del principio del bene e di quello del male camuffato con le sembianze dell’innocuo[7].

È ora di ricapitolare: il manichino è un oggetto tecnico finalizzato ad uno scopo che sta al di fuori di lui e che può essere perseguito intervenendo sulla sua figura corporea (disciplinandola), assegnandogli uno spazio di circoscrizione (un luogo eterotopico di designazione) e proiettando su esso delle discorsività che possano mettere a tacere un’eventuale produzione autonoma di significato (favorendone con ciò la fissazione in un simulacro).

Se usciamo dalla metafora e rileggiamo il testo sostituendo alla parola “manichino” il termine “adolescenza” balza all’occhio quanto, oltrepassando di fatto ogni retorica analogica, essi siano interscambiabili.

Il manichino non esiste se non come esito di un processo di costruzione (non ci si imbatte in un manichino senza che via sia a monte un suo artefice, così come ci si potrebbe invece imbattere in un tronco che abbia “naturalmente” sembianze umane); allo stesso modo l’adolescenza appartiene ad un ordine artificioso (non la si può incontrare se prima non la si è “categorizzata”, mentre è faccenda consueta quella di poter incontrare un “figlio”[8] od un “neonato”[9]). Sia sotto il profilo concettuale che sotto quello pragmatico il “funzionamento” della categoria dell’adolescenza è infatti conforme ad un campo di attribuzioni che si sono progressivamente determinate in relazione a processi storico-sociali, culturali, politico-economici e di sviluppo delle scienze umane.

Per dirla con chiarezza: vi è adolescenza soltanto nella misura in cui la si è “costruita” e descritta, pur nella varietà delle costruzioni e delle designazioni progressivamente intervenute o simultaneamente presenti nella vetrina dell’adolescenza.

Possiamo finalmente apprezzare anche i due incisi che ci siamo precedentemente concessi: così come il manneken è un diminutivo dell’uomo fatto e finito; l’adolescenza è per definizione una “terra di mezzo”[10] tra l’infanzia e l’età adulta, una condizione di non-più-bambino e non-ancora-uomo curiosamente (ma a questo punto neppure tanto) sovrapponibile alla figura ibrida di quel fantoccio.

Andando oltre: alla narrazione spensierata dell’adolescenza è invariabilmente associato il “lato oscuro della Luna”, quella parte nascosta che minaccia costantemente l’eruzione delle spaventose manifestazioni di ingovernabilità giovanile. Esattamente come accade con le bambole (come visto, antesignane dei manichini) capaci di suscitare tanto amore quanto terrore, l’adolescenza è allo stesso tempo approcciabile e raccontabile nella sua veste buona e in quella orrorifica: promessa di futuro o, nello stesso istante, minaccia di distruzione. A seconda di molteplici circostanze e congiunture può prevalere l’una o l’altra rappresentazione, con importanti ripercussioni nei discorsi e nelle scelte che si fanno in tema di adolescenza.

Una qualità non ci deve sfuggire: per quanto l‘adolescenza sia una categoria tecnica artificiosamente assemblata, cionondimeno essa non appartiene al livello delle astrazioni o delle teorizzazioni dottrinali, anzi: proprio in quanto circoscrizione di un campo all’interno del quale collocare gruppi di popolazione, l’adolescenza in quanto tale è estremamente concreta.

Insomma: l’adolescenza, proprio in quanto prodotto d’artificio, esiste. Guai a dubitarne.

2. L’adolescente: io è un altro

Questa “terra di mezzo” dell’adolescenza[11], che abbiamo visto essere un luogo meno fittizio di quanto potrebbe erroneamente indurre la sua artificiosità categoriale, è popolata da masse di soggetti erranti, più o meno definibili nel loro vagare: i cosiddetti adolescenti.

Ma una volta indicato il territorio tecnico-operativo dell’adolescenza, chi sono infine questi adolescenti che concretamente lo abitano? Si ha forse a che fare con un raggruppamento definito da una connotazione anagrafica inscritta, come alcuni vorrebbero, tra i 13 e i 20 anni circa? Neanche per sogno: l’utilità delle semplificazioni si ferma davanti al ridicolo delle banalizzazioni. Collocare stocasticamente sottogruppi di popolazione etichettabili come “adolescenti” in un range di età è un esercizio stilistico che non coglie il bersaglio. Come equiparare R., un ragazzino siriano di 14 anni arrivato in Italia scappando dalla guerra civile che dal 2011 sta devastando il suo Paese[12], con un ragazzone diciottenne indeciso su cosa fare a conclusione delle scuole secondarie di secondo grado?

Senza la guida della lampada cronologica, come possiamo peraltro collocare gli adolescenti nella vetrina dell’adolescenza? Ricorriamo ad una partizione che possa cogliere alla radice la differenziazione tra “adulto” ed “adolescente”: quella del linguaggio.

La rassicurante freccia evolutiva dello sviluppo è segnata da alcune grandi tappe: nascita – infanzia – puerizia – adolescenza – adultità[13].

Al neonato lasciamo la felice incoscienza dei gorgoglii che si trasformeranno in lallazioni; all’infante[14] spetta il regno della comunicazione verbale senza la parola; al puer bambino tocca esercitarsi come apprendista del parlare. Chiamiamo infine adulto chi padroneggia il linguaggio assumendosene compiti e responsabilità.

Il linguaggio cui ci riferiamo non deve essere ridotto al piano espressivo del grado di competenza lessicale del parlante, ma in senso proprio è da intendersi come la partecipazione del soggetto alla comunità ed il suo posizionamento in essa. Quel che può chiamarsi “maturità” è quindi l’avvenuta inscrizione del soggetto in alcuni cardini che sono nominabili come “identità”, “esperienza” e “titolarità”.

“Io sono questo” (identità) – “Dico o faccio questo perché ne so” (esperienza) – “Se ne dico o se lo faccio è perché ne sono autorizzato” (titolarità).

La condizione di transito, la disequilibrata postura in bilico tra una “forma bambino” e una “forma adulta” è la caratterizzazione dell’adolescenza sulla quale convergono praticamente tutte le discipline psicosociali, concordi nell’assegnare all’adolescente una sorta di qualità ibrida.

Collochiamoci anche noi in tale area sospensiva, ma osservando l’instabilità del soggetto dal punto di vista sociosemiotico, ovvero assumendo le pratiche di significazione collocate nel loro specifico contesto culturale e socio-relazionale[15]. Semplificando quanto più possibile possiamo allora indicare come “adulto” chi, nelle sue pratiche comunicative e a prescindere dal ruolo sociale e dalla competenza riconosciutagli, è chiamato a significare qualcosa. Diciamolo propriamente: che si tratti di un lumpen analfabeta o di uno scienziato, l’adulto è pur sempre un significante. Da qui i ruoli, le funzioni, le competenze e via via dicendo nel variegatissimo contenitore sociale: adulte le guardie ed adulti i ladri. Adulti anche i ragazzini che a tredici anni attraversano continenti per sfuggire a guerre o povertà; non perché non siano portatori di bisogni, diritti e necessità di ricevere tutele e protezioni in quanto soggetti fragili vittimizzati, ma perché esprimono una potenza di significazione incontrovertibile che gli assegna lo status di parlanti adulti. Sono forme diverse di adultità, certo, ma sono tutte adulte proprio perché significano.

Nella nostra filiera evolutiva l’adolescenza designa invece quell’area rarefatta nella quale la competenza comunicativa del “non-più-bambino” e “non-ancora-adulto” vagabonda in una significatività intermittente. È come se il significato roteasse in una copresenza di molteplici, indeterminati, contradditori barlumi di senso eventuale. La mutevolezza la fa da regina, ma non come espressione di un capriccio o di un ripensamento che porterebbe sui propri passi facendo scegliere un significato antitetico rispetto a quello precedentemente costruito; è piuttosto una mutevolezza procedurale quella che distingue colui che può essere chiamato “adolescente” da colui che è indicabile come “adulto”.

È difforme il processo di produzione del significato, che invece di essere un “prodotto” è equiparabile piuttosto ad una “occasione” nella quale trovano simultaneamente spazio e manifestazione ennesime suggestioni. Ecco quindi che il linguaggio adolescente – e cioè la sua costruzione di mondo – mescola, confonde, sostituisce, dissipa, inventa e così via trafficando in un caotico rimbalzare di lampi, luccichii, intermittenze. Identità, esperienza e titolarità non fanno parte di questo circo equestre adolescente nel quale echeggia la formula magica: “Io è un altro”[16].

La categoria dell’adolescenza, qualunque sia il suo ambito di applicazione (pedagogico, psicologico, clinico, sociale, giuridico e quant’altro), è di conseguenza un’armatura disciplinare funzionale a trattare questa proteiformità per stabilizzarla in una cornice (o in una vetrina, se vogliamo rinnovare l’immagine da cui siamo partiti).

Proprio in questa sua espressione tecnica l’adolescenza manifesta in tutta evidenza l’accessorietà che le è propria: non possono non esserci neonati, infanti ed adulti; nessuna società umana in nessun periodo storico ha potuto farne a meno. Sono architravi antropologiche.

Gli adolescenti, all’opposto, possono esserci o non esserci e, anzi, nella loro compiuta modellazione sono una creazione piuttosto tardiva che, per di più, può essere ignorata o sostituita con altre figurazioni a più alta efficacia, in particolare quando i sistemi sociali entrano in crisi.

Come nel caso in cui vi sia l’incontrollata propagazione di un fenomeno morboso: una pandemia. Proviamo a sollecitare la portata euristica del discorso che stiamo sviluppando comparando tra loro le figure adolescenti in tre drammatiche circostanze pandemiche: la peste nera, l’influenza spagnola e il Covid-19. Operativizziamo cioè in quegli specifici contesti tale categoria sociale applicando tre direttrici osservative: come si configura lo spazio, che ne è del corpo, cosa va a significare il linguaggio. Applichiamo questi interpretanti[17] al fine di socchiudere una prospettiva prognostica sul futuro dell’adolescenza.

3. Forme pandemiche dell’adolescenza

3.1. I giovani ribaldi della peste nera

Diffusa in Europa a partire dal 1348 la peste nera sconvolse irreparabilmente i sistemi sociali del tempo, assurgendo ad evento emblematico distruttivo della totalità di uno stato di cose e generativo di un nuovo ordine[18]. Sin da subito una sorta di millenarismo pandemico[19] trovò associazione con questa devastante sciagura che sterminò la popolazione riducendola di un terzo[20]: nulla avrebbe più potuto essere come prima e da quel cataclisma sarebbe necessariamente derivato un mondo nuovo. In effetti fu proprio così: non soltanto dal punto di vista demografico, ma gli effetti del contagio determinarono sotto tutti i profili un’autentica frattura tra la società ante e quella post: l’economia, i commerci, l’urbanistica, le arti, le professioni, le relazioni umane. Tutto, proprio tutto, trovò radicale e repentina trasformazione a partire dalla cesura di quel quinquennio pestilenziale. Le visioni apocalittiche trovarono ampio sostegno nelle estremizzazioni religiose che favorirono l’attribuzione delle cause del “castigo pestilenziale” a specifici gruppi di popolazione: in particolare gli ebrei furono indicati come i responsabili del contagio e conseguentemente sottoposti a persecuzioni[21], ma anche altri segmenti sociali quali le prostitute, gli “stranieri” e in generale gli individui “sfuggenti” divennero destinatari di tutti quegli armamentari di violenta purificazione indirizzati a sconfiggere il male estirpando gli untori. Le descrizioni dei cortei dei flagellanti[22] e le rappresentazioni pittoriche delle “danze macabre”[23] sono efficaci illustrazioni del clima di devastazione dei rapporti sociali indotto dal morbo.

Ma in questo cataclisma che posto occupavano gli adolescenti di allora? Nessuno: semplicemente non esistevano adolescenti.

In vece loro ci sono gli juvenes; quei ribaldi, sfrenati, intemperanti giovani che fanno comunella per gozzovigliare senza ritegno. I giovani costituiscono una sorta di “altra società”, una “comunità a parte” turbolenta e pericolosa dedita a condotte licenziose che sovente degenerano in eccessi di violenza o depravazioni scellerate[24]. Con queste bande canagliesche di giovani il mondo adulto oscilla tra due antitetiche modalità di relazione: o li lascia fare assegnandogli una sorta di autogoverno nel “mondo alla rovescia”, o all’opposto ingaggia con loro una vera e propria battaglia per ricondurli all’ordine a fil di spada.

La peste nera irrompe in sistemi sociali nei quali vi è la dimensione relazionale della “comunità d’affiliazione” (le corporazioni delle arti e dei mestieri, le sopravvivenze degli ordini cavallereschi, le cerchie aristocratiche, le congregazioni religiose, ma anche le fratellanze giovanili) che stanno progressivamente inserendosi nel processo di urbanizzazione[25]. La pandemia scombina questa dimensione spaziale introducendovi due riorganizzazioni. Da una parte incentiva la procedura del quadrillage, ovvero della quadrettatura, la suddivisione a scacchiera del territorio urbano che si era già avviata per ragioni commerciali ed artigianali (il quartiere dei conciai, quello degli aquaioli, degli orafi e via dicendo) e che si accelera ora rapidissimamente per assolvere ad una funzione di controllo del contagio destinando porzioni perimetrate di territorio al contenimento degli appestati al fine di circoscrivere i miasmi del morbo[26]. Dall’altra parte si assiste alla fuga dalle malefiche città (si consideri che le fonti documentali attestano la morte dei quattro quinti della popolazione di Firenze e del 60% di quella di Venezia)[27].

Quindi le alternative sono due: per gli appestati la chiusura nei lazzaretti e per chi invece non è ancora stato infettato, la strada della salvezza è quella uscire dalla città per cercare rifugio oltre le mura; proprio come fanno i dieci giovani amici (sette ragazze e tre ragazzi) della brigata boccaccesca che se ne vanno nella residenza di campagna[28] trascorrendo giornate dedicate a canti, balli, giochi, preghiere e licenziose narrazioni che giustificheranno il bollo censorio dell’immoralità appostato per oltre due secoli sul Decameron[29]. Immagine nitida dei giovani trecenteschi quella offerta dal Boccaccio, allorquando, come detto, di adolescenti in giro non se ne vedevano: riuniti in un loro spazio appartato, in presenza diretta dei corpi carnali in bilico tra il peccato e la licenza, immersi in una struttura generale di linguaggio dell’epoca caratterizzata da un funzionamento attratto dai salti tra dimensioni magiche, precetti religiosi, slanci poetici e suntuose figurazioni. Un linguaggio allegorico, polisemico, avvicinabile con molteplici chiavi interpretative.

Riassumendo: nella pandemia della peste nera non esiste la categoria dell’adolescenza, ma la società pullula di giovani che vivono in un modo a parte rispetto all’ordine adulto, dotati di corpi indocili e di passioni carnali, sfuggenti al comando. Su tutti, giovani ed adulti, prolifera un variegato linguaggio che apre ad ennesime significazioni.

3.2. Gli adolescenti soldati dell’influenza spagnola

Un altro flagello pandemico ha giganteggiato come un topos nella fissazione delle cesure che hanno cambiato la storia delle popolazioni: l’influenza spagnola che fra il 1918 e il 1919 ha attraversato il pianeta facendosi ricordare come la più grave pandemia della storia dell’umanità[30]. Nelle ancora attuali controversie sull’origine e sulla patogenicità del virus[31] di una cosa si è certi, e si tratta di una particolarità estremamente significativa: il Paese da cui si innescò la propagazione del morbo non fu la Spagna.

Perché allora chiamarla Spagnola? Per ragioni politiche, militari e di comunicazione pubblica: le prime notizie sulla diffusione di questa forma aggressiva di influenza vennero riportate dai giornali spagnoli mentre infuriava la Prima Guerra Mondiale, dalla quale la Spagna era rimasta neutrale. Mentre nelle nazioni belligeranti vi era il controllo sui mezzi d’informazione messi al servizio degli scopi di guerra, l’assenza di censura nella stampa spagnola fece sì che si diede voce pubblica dei morti che andavano moltiplicandosi; quegli stessi morti di influenza ai quali semplicemente non era riconosciuto il diritto di esistere negli altri Stati in conflitto perché la notizia avrebbe potuto infiacchire il morale dei combattenti. Quindi, sino alla conclusione della guerra la (falsa) vulgata messa in circolazione affermava che si trattasse di un evento circoscritto alla sola Spagna dal quale erano immuni le altre popolazioni[32]. Come abbiamo segnalato si tratta di una circostanza emblematica che mostra sin dall’origine della pandemia la sussistenza di un ordine del linguaggio retto da un comando gerarchico indirizzato ad una finalizzazione del processo comunicativo posto sotto gestione controllata. Rispetto a quanto si è detto con riferimento ai sistemi sociali colpiti dalla peste nera il salto è già qui manifesto.

Ma andando oltre: se abbiamo visto che nel XIV secolo non si può dire vi fosse l’adolescenza, occorre segnalare che nel 1918 questa categoria era invece già stata ampiamente introdotta, tanto che l’immenso romanziere russo Lev Tolstoj, influenzato dai temi pedagogici diffusi dalle opere di Jean Jacques Rousseau[33], iniziò la sua avventura letteraria pubblicando tra il 1852 e il 1854 la trilogia Infanzia, Adolescenza e Giovinezza che, in manipolazione tra autobiografia e finzione narrativa, percorre le tappe della crescita dell’individuo fino alla maturazione come uomo[34]. L’adolescenza è individuata quale tappa intermedia di formazione per divenire uomini, una fase di vita nella quale devono concentrarsi gli sforzi della società e delle istituzioni per far trionfare le capacità adattive alle regole sociali contrastando il permanere nell’individuo dei tratti infantili[35]. L’adolescenza è quindi una sorta di campo di battaglia nel quale giocare tutte le carte possibili, siano esse pedagogiche, psicologiche, correzionali o quant’altro, affinché si possa salutare la nascita di un individuo conforme. Conforme quanto basta per essere funzionale nel sistema produttivo (la grande industria richiede forza-lavoro adeguatamente uniformata), per essere stabilizzato nelle coordinazioni valoriali che reggono le società (la famiglia e i sistemi di governo centralizzati in primo luogo) o per essere attratto dalle potenti narrazioni che percorrono il Novecento (gli apparati ideologici, pur nelle enormi differenze di senso e di visione del mondo che intercorrono tra gli uni e gli altri).

Scuola, caserma, fabbrica custodiscono quei dispositivi trattamentali che vanno via via perfezionandosi nel trattamento ortopedico[36] specificamente indirizzato a coloro che sono allocati nella categoria tecnica dell’adolescenza. Certo, vi è resistenza negli adolescenti che sovente sono renitenti a prendere il loro posto nel rispetto delle regole, ma è proprio questa resistenza a giustificare vieppiù, se mai ve ne fosse bisogno, la necessità dei dispositivi.

Così come l’organizzazione dello spazio che contraddistingue questa fase storico-sociale è predefinita e operativizzata (si è detto: scuola, caserma, fabbrica; ma anche ospedale, carcere, organizzazione delle città sulle distinzioni tra centro e periferia), secondo la stessa procedura di accorpamento i gruppi sociali sono categorizzati per funzione (studenti, operai, padronato) o per status sociale (appunto: gli adolescenti di contro ai padri, agli insegnanti e alle altre figure poste gerarchicamente sopra di essi).

Ebbene, durante la pandemia dell’influenza spagnola[37], pur essendoci come abbiamo visto la figura dell’adolescente, questa stessa figura è oscurata e sostituita con quella del soldato. Si è in guerra e gli adolescenti sono chiamati alle armi: i cosiddetti ragazzi del ’99 sono le masse dei coscritti di leva italiani appena diciottenni che vengono buttati in prima linea dopo la disfatta di Caporetto dell’ottobre del 1917. Se scavano le trincee, si lanciano con la baionetta innescata e cadono sotto il fuoco nemico non possono essere più adolescenti: devono essere soldati, appunto. In aggiunta, occorre annotare che i tassi di mortalità della Spagnola evidenziano un’anomalia epidemiologica che ha lasciato sconcertati e che è stata oggetto di numerosi studi: la grande maggioranza di decessi è riscontrata tra i giovani e non nella popolazione anziana[38]. Tra le ragioni di tale insolito dato, si è evidentemente sottolineato il collegamento con le condizioni di precarietà sanitaria, di promiscuità abitativa, di insalubrità ambientale, di esposizione a severi fattori avversativi che vivevano i tantissimi combattenti contagiati[39]. In queste condizioni la perimetrazione dello spazio diventa sempre più angusta e i corpi sono trasformati in masse organiche da mettere all’opera, che si tratti di buttarsi in un assalto o di tenere una linea di difesa o di assemblare pezzi in retrovia nella catena di montaggio. La trincea è la metafora spaziale dell’influenza spagnola, quel camminamento reticolare sotto il livello del suolo ove, obbedendo a un comando, si riuniscono quelli che hanno il compito di attendere l’esito finale, sia esso mortale o benigno; tutti quanti resi uguali dalla stessa uniforme e disciplinati dalle ferree regole impartite.

Quale linguaggio vige in questa condizione? Il linguaggio significante: quello che assegna un nome proprio alle cose, quello che esprime un’assertività, quello che predispone una gerarchia, quello che si dichiara in grado di dimostrare la correttezza dell’asserzione formulata, quello che subordina gli altri linguaggi sregolati (siano essi artistici, deliranti, irrazionali o… adolescenti, appunto), quello che predispone la funzione di governo delle popolazioni, delle relazioni, dei sistemi sociali.

Riassumendo: nella pandemia dell’influenza spagnola si ritrova la categoria dell’adolescenza, ma questa è sospesa nella contingenza della guerra e sostituita dalla figura del soldato. L’adolescente soldato è sottoposto al comando dell’adulto che dispone dei mezzi correzionali ritenuti idonei per il suo addestramento, applicandoli prevalentemente su un corpo organico reso docile e disciplinato. Il linguaggio significante è quello che esprime l’ordine delle cose e dei rapporti sociali ed il suo utilizzo richiede che con un lento apprendistato si esca dalla posizione adolescente per diventare uomini.

3.3. L’adolescenza espansa del Covid

Trascorre esattamente un secolo dall’ultima ondata dell’influenza spagnola dell’inverno 1918-1919 quando nell’autunno del 2019[40] le autorità sanitarie cinesi di Wuhan riscontrano i primi casi di pazienti con sintomi di una polmonite a causa sconosciuta. Fa la sua prima ombrosa apparizione la pandemia che sarà denominata Covid-19 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Rispetto ai precedenti flagelli pandemici della peste (con un tasso di mortalità stimato al 30% dei contagiati) e dell’influenza spagnola (con un numero di decessi attestato sui 50 milioni di morti), questa volta la falce della Nera Signora, seppur impietosa e per quanto ancora non siano chiari gli effettivi tassi di mortalità e di morbilità, parrebbe aver causato nel mondo circa sette milioni di morti[41] con un’incidenza stimata inferiore al 3% dei contagiati[42] e con un’ampia forbice di decessi subiti dalla popolazione anziana (colpita in nettissima prevalenza, in particolare quella già compromessa da altre concomitanti patologie) rispetto a quella più giovane, ampiamente risparmiata dagli esiti infausti[43]. Nondimeno, l’impatto comunicativo e trasformativo dei sistemi sociali indotto dall’emergenza sanitaria Covid ha mostrato una radicalità, una profondità e una diffusione planetaria tali da renderla un evento-cardine della storia umana.

Innanzitutto, occorre segnalare che quando irrompe il Covid la categoria dell’adolescenza si è ampiamente sviluppata ed è ostentatamente esibita. Lo si è detto: durante la peste nera non c’erano gli adolescenti; durante l’influenza Spagnola gli adolescenti c’erano, ma erano stati camuffati con la maschera del soldato[44]. Dalla metà degli anni Sessanta del secolo scorso all’adolescenza sono man mano tolti tutti i travisamenti che li avevano fatti diventare dei vigorosi baldanzosi pronti a combattere nel nome di un destino glorioso per sé o per la Nazione. L’adolescenza diventa quella fase evolutiva nel percorso di crescita di un individuo nella quale si vivono le incertezze psicologiche e sociali derivanti dal non avere ancora una stabilità, dall’essere indecisi sul da farsi, dal sentirsi spinti verso i compiti e le responsabilità degli adulti nel mentre ci si vorrebbe soffermare nelle incoerenze e nelle spensieratezze di una condizione sospesa priva delle impellenze del “dover essere”[45]. Si sviluppa quindi un ampio ed articolato sapere delle scienze umane sui temi dell’adolescenza, sulle problematiche di questa età dell’incertezza e su quali possono essere, sotto tutti i profili, gli interventi efficaci per traghettare i ragazzi dalla intricata confusione del virgulto alla forma matura dell’albero.

Con gli adolescenti si aprono conflitti e si cercano condivisioni, si sviluppano dialoghi e si chiudono comunicazioni, si scambiano esperienze e si tagliano i ponti relazionali. Si apre cioè una dinamica ondeggiante nei rapporti tra adolescenza e mondo adulto che porta questi due pianeti a scontrarsi o ad abbracciarsi, a convergere o a distanziarsi, con un andamento irregolare in costante bilico tra un persistente timore nei confronti del pericolo adolescente e la seduzione esercitata dall’età dell’adolescenza. Quel che rimane è la partizione tra il linguaggio adulto retto dal significante e linguaggio adolescente piegato alle distrazioni passionali.

Eppure mentre la pandemia Covid fa la sua irruzione c’è un altro adolescente che sta girellando per il mondo e sta dettando le sue regole: l’adolescente digitale. Quando il 30 gennaio 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiara lo stato di emergenza sanitaria pubblica di interesse internazionale, Facebook sta per compiere sedici anni, Instagram ne ha appena dieci[46]. Internet stesso è adolescente, visto che è solo nel 2000 che diviene sinonimo di globalizzazione, mentre si colloca alla seconda metà degli anni Novanta la massiccia diffusione pubblica della rete al di fuori di specifici gruppi scientifici ed economici o di cerchie di utenti con interessi ristretti ed apicali.

Che cosa abbiano rappresentato la rete e le comunicazioni social non è qui il caso di argomentarlo: vicinanza e distanza perdono le loro coordinazioni spazio/temporali; relazione virtuale e relazione personale vanno a confondersi; finzione e realtà escono dai cardini che li avevano regolati per secoli. Perde progressivamente senso la separazione tra on-line e off-line, distribuendosi il vivere quotidiano di ciascuno in una continuità che può essere chiamata onlife[47].

Quando l’allarme per la diffusione del Covid comincia a designare i contorni di una pandemia, questa entra immediatamente, nello stesso istantaneo momento, nella vita di tutti. Non vi è una progressione, per quanto rapida, nella diffusione del sapere sul morbo: da quando lo si nomina, ecco che da un secondo all’altro tutti si è in emergenza. E tutti possono seguire l’evoluzione pandemica praticamente in diretta con supporto di filmati e dichiarazioni[48] che entrano nella storia della comunicazione pubblica contribuendo a costruire un immaginario collettivo.

Se lo spazio della peste nera era quello del lazzaretto o della fuga in campagna; se lo spazio dell’influenza spagnola era quello della trincea o comunque del perimetro di isolamento per gli ammorbati; lo spazio del Covid è quello delle case private, identico per tutti. Che siano contagiati o meno, l’ordine è di chiudersi nelle case, non uscire, stare fermi lì in un isolamento aggirabile grazie alle autostrade della rete e dei social. Ovvero grazie alla navigazione proprio su quelle rotte relazionali e comunicative connotabili dai tratti dell’adolescenza. Un’adolescenza non assegnabile soltanto in ragione della giovane età di queste tecnologie (che abbiamo visto essere un attributo insufficiente per designare la condizione adolescente), ma perché caratterizzate da un funzionamento del linguaggio sradicato dal significante, cioè da quella procedura che ha posto l’autentica partizione tra mondo adulto e adolescenza.

Nel chiuso delle case si procura quindi un’apertura indiscriminata al mondo e alle relazioni mediata dal linguaggio adolescente dei media digitali, retto su ordini discorsivi fortemente piegati al formato audiovisivo, sincopati in un’accelerazione volta alla rapida conclusione del segmento enunciativo (gli sviluppi argomentativi e dimostrativi propri del significante perdono del tutto attrattività), nei quali saltano le gerarchie tra i parlanti e la vocazione prevalente è quella di passare da un registro all’altro senza necessità di coerenza o financo neppure di successione, in una contemporaneità di tempi e sovrapposizione di contenuti tra loro anche antitetici.

I corpi, che avevamo visto essere fortemente carnali durante la peste nera e massicciamente organici sotto l’influenza spagnola, si dematerializzano per far posto alla figura del corpo, alla sua immagine più o meno ancorata ad un residuo fattuale, essendo del tutto assorbente il corpo da vedere e da mostrare piuttosto che il “corpo proprio” da custodire.

Nell’espansione della dimensione adolescente, quelli che sono ancora indicizzati come adolescenti in carne ed ossa assumono la veste del soggetto pericoloso: le prime determinazioni volte al contrasto della diffusione pandemica riguardano la chiusura delle scuole e degli spazi di aggregazione giovanile, i luoghi all’aperto dove i ragazzi sono soliti ritrovarsi vengono banditi, la cosiddetta movida (ovvero, detto altrimenti, i posti del divertimento tra pari) diventa sinonimo di contagio. Una sorta di contrapposizione si apre tra gli adolescenti concreti, divenuti quasi una variabile avversativa da contenere, e la popolazione anziana messa a rischio di vita. Tutt’intorno, l’adolescenza diffusa dei nuovi linguaggi emergenti che includono giovani e adulti senza conoscere partizioni anagrafiche nell’istantaneo significare per effetto di estemporanee attrazioni o fascinazioni o curiosità senza che vi sia una regolazione del significante.

Riassumendo: nella pandemia Covid la categoria dell’adolescenza, pur rimanendo assegnata nominalmente a quel sottogruppo di giovani che manifestano in quanto tali una resistenza nel diventare adulti, in realtà si espande indefinitamente arrivando a comprendere nel suo funzionamento fette maggioritarie della popolazione di tutte le età.

Il corpo perde il suo ancoraggio materiale[49] e si avvicina alla dimensione figurativa in lotta con l’incrostazione del corpo-proprio[50]; lo spazio è in bilico tra la chiusura domestica e l’indeterminata apertura dematerializzata della rete. Il linguaggio sfilaccia la connessione tra mondo adulto e procedura significante per avvicinarsi sempre più alle incoerenze di un linguaggio visuale vocato ad attrarre per segmenti di significazione tra loro scollegati. Il linguaggio incoerente tipico dell’adolescenza[51] diviene, quindi, il linguaggio tendenzialmente egemone.

Nel XIV secolo la peste è raffigurata allegoricamente da un linguaggio polisemico senza adolescenti; nel 1918 l’influenza spagnola è negata da un linguaggio significante con gli adolescenti camuffati; nel 2020 il Covid è esibito dal linguaggio della spettacolarizzazione nel proliferare adolescente.

4. Dalla pandemia alla sindemia

Torniamo da dove eravamo partiti: nella prima delle pandemie che abbiamo trattato non si può dire che vi fosse una vetrina e tantomeno dei manichini; nella seconda pandemia invece l’una e gli altri c’erano eccome, anche se questi ultimi erano stati coperti con altri vestimenti rispetto a quelli che ci si sarebbe potuti attendere. D’altra parte la merce bellica messa in vendita per la clientela era di una natura speciale che richiedeva accorgimenti particolari. Dai decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, la vetrina dell’adolescenza è stata sempre più addobbata con varietà di capi, di fogge e di abbigliamenti buone per tutti i gusti. I clienti si soffermano, osservano, commentano. Spesso entrano nel negozio per fare acquisti. Un osservatore può con una certa sicurezza riconoscere e distinguere i ruoli: quello è il potenziale cliente, quella è la vetrina davanti alla quale qualcuno si è attardato per curiosare, quello messo in mostra posso chiamarlo manichino ed è stato posizionato con gusto e competenza da un addetto all’uopo preparato, un vetrinista. Ad ognuno il suo posto e la vetrina separa: il potenziale cliente fuori, il manichino dietro la vetrina, il vetrinista all’opera quando è il suo momento e possibilmente senza dare nell’occhio, il commerciante dentro il negozio.

La pandemia Covid irrompe come straordinaria acceleratrice di un processo vorticoso avviatosi da pochissimo tempo di scompaginamento delle posizioni: le vetrine si moltiplicano in specchi riflessi, i manichini si confondono con i clienti in un’indistinzione caotica, il commerciante non è più quello che conosce meglio degli altri la propria merce e che ha titolo a descriverla, ma chiunque può in qualche modo commerciare senza necessità di aver padronanza dell’argomento potendosi poi in pochissimo tempo distrarre con altro infischiandosene di addurre alcun motivo giustificativo.

La tempesta del Covid è andata oltre la pandemia, aprendosi al dilagare di quella che è stata denominata col termine di sindemia[52]: un incontrollabile diffondersi di patologie sanitarie, sociali, economiche, psicologiche, dei modelli di vita, della cultura e delle relazioni umane in un irrisolvibile intreccio tra malattie, condizioni ambientali e determinazioni socio-economiche. Di più: come abbiamo cercato di argomentare, il Covid si è incuneato in una profonda frattura apertasi con inedita velocità nella mutazione delle strutture e dei funzionamenti del linguaggio. Più sindemico di così, verrebbe da dire, non avrebbe potuto essere.

In questo quadro di sommovimento dei valori e degli equilibri storico-sociali, in questa condizione proiettata verso un futuro incerto e per nulla rassicurante, senza esprimere alcuna affinità nei confronti delle posizioni che indulgono all’annichilimento apocalittico, occorre peraltro constatare che l’adolescenza è proprio sull’orlo della catastrofe ovvero, correttamente detto seguendo il significato etimologico del termine[53], sul punto di un imminente capovolgimento rispetto al quale necessita in tutta evidenza la riorganizzare dell’insieme dei saperi disciplinari e delle scienze umane, la loro risemantizzazione per poter riuscire a dare adeguato conto dell’accadere aprendosi ad una nuova possibilità dell’avere a che fare con le giovani generazioni, ora francamente compromessa.

Se l’uomo è antiquato, come argomentava Gunther Anders per segnalare la cesura irreparabile nella condizione umana indotta dallo sganciamento delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki[54], sembrerebbe ora di poter dire che l’adolescenza è usurata e, in qualche modo, ormai oltrepassata. Forse, in qualche modo, la deflagrazione della bomba informatica[55] ha introdotto delle mutazioni tanto radicali quanto quelle causate della fusione dell’atomo. Delle mutazioni quasi antropologiche, verrebbe da dire.

Comunque sia: passata di mano in mano tra tutti, stiracchiata e piegata a piacimento dai più, utilizzata come capro espiatorio[56], l’adolescenza come categoria tecnica ha perso ogni attualità. Gli adolescenti sono diventati degli sconosciuti, quasi degli alieni.

Il linguaggio adolescente si è cionondimeno diffuso come e più del contagio virale: tutti sono adolescenti, nessuno è adolescente. Anche questo fa parte della posta in gioco buttata sul tavolo planetario dalla sindemia.


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  • Coronavirus Toll: Cases & Deaths by Country, Historical Data Chart – Worldometer, worldometers.info
  • COVID-19 Coronavirus Pandemic, accessibile su worldometers.info

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note

[1] Nel 2014 la svizzera Anne Gillioz, proprietaria di una boutique nella piccola cittadina di Conthey nel Canton Vallese, ha sperimentato per la prima volta l’efficacia dell’esporre in vetrina ragazzi e ragazze abbigliati come manichini viventi, ottenendo un immediato successo commerciale e di visibilità internazionale. Da allora, pur tra molteplici polemiche, molti negozi di fashion retail hanno introdotto nelle proprie strategie di marketing l’utilizzo di modelli e modelle che passano ore in vetrina a rappresentare scene di vita quotidiana. In Italia i manichini viventi sono stati messi in vetrina a Roma, Milano e Belluno.

[2] Tale posizione di servizio vale per tutte le tipologie di manichino, sia esso destinato alla sartoria, alla stiratura, alla vetrinistica, all’educazione medica, alle belle arti o all’uso militare.

[3] Le eterotopie sono spazi concreti che costituiscono una sorta di contro-luoghi, utopie effettivamente realizzate nelle quali i luoghi reali vengono al contempo rappresentati, contestati e sovvertiti. Si veda al proposito il volume della rivista interdisciplinare completamente dedicata all’analisi di tale categoria: Millepiani, Eterotopia. Luoghi e non-luoghi metropolitani, n. 2, 1994 Mimesis, Milano, e in particolare il saggio ivi presentato per la prima volta in traduzione italiana di Foucault M., Eterotopia, pp. 9-20; in seguito ripubblicato in: Alessandro Pandolfi (a cura di), Archivio Foucault, Interventi, colloqui, interviste. Vol. 3 Estetica dell’esistenza, etica, politica, Feltrinelli, Milano, 1998, pp. 307-316.

[4] Per un’estesa trattazione del simulacro nelle società post-moderne rette dalla cosiddetta “Iperrealtà dei consumi”, si veda Baudrillard J., Simulacra and simulation, University of Michigan, 1994.

[5] La storia delle bambole è molto antica, essendo stati rinvenuti resti di tali piccoli oggetti antropomorfi risalenti all’Età del Bronzo e successivamente all’epoca dell’Antico Egitto, ma essi erano destinati ad usi liturgico-sacrali o squisitamente ludici, non assimilabili quindi alla funzione da manichino alla quale noi ci stiamo riferendo. Cfr. Borga F., La bambola nel corso dei secoli. Dall’antico Egitto ai giorni nostri, con ampia bibliografia in calce, rinvenibile all’indirizzo mail:

http://www.artericerca.com/Articoli%20Online/La%20Bambola%20nel%20corso%20dei%20secoli.htm

[6] Oltre alle celebratissime Chucky, la Bambola Assassina del film diretto da Tom Holland nel 1988, ad Annabelle, dell’omonimo film del 2014 diretto da John R. Leonetti, e al film Il manichino assassino di Georg Fenady del 1974; doll e puppet (per non parlare dei clown) sono un tema ricorrente della rappresentazione orrorifica.

[7] La pediofobia è quella manifestazione fobica indotta dalle bambole, sovente associata alla coulrofobia, la paura per i pagliacci.

[8] Essere “figlio” è l’evidenza di un dato naturale, sebbene il termine “figlio” introduca ad un rapporto di parentela costitutivo di legami sociali e famigliari storicamente determinati e culturalmente connotati, come ha ampiamente analizzato Benveniste É., Il vocabolario delle istituzioni indo-europee, 2 voll., Einaudi, Torino, 2001, con particolare riferimento a op. cit., vol. II, Il vocabolario della parentela, pp. 157-215.

[9] La condizione neonatale è auto evidente di per sé.

[10]La Terra-di-Mezzo richiama immediatamente l’immaginario fantasy mappato da J. R. R. Tolkien nella trilogia de Il Signore degli anelli, Bompiani, Milano, 2004 e ne Lo Hobbit, Adelphi, 2012 Milano; ma giova riportare quanto lo scrittore aveva puntualizzato in alcune sue corrispondenze: “La Terra-di-Mezzo non è una mia invenzione. È una modernizzazione o un’alterazione di un’antica parola greca che indicava il mondo abitato dagli uomini, l’oikoumene: di mezzo perché si pensava vagamente che fosse posta al centro di mari che la circondavano”. Vedi Carpenter H. e Tolkien C. (a cura di), J. R. R. Tolkien: la realtà in trasparenza. Lettere, Bompiani, Milano, 2001, lettera n. 211.

[11] Occorre appuntarcelo come integratore nei nostri ragionamenti: a volte la “Terra di Mezzo” dell’adolescenza ha grandi affinità con la No man’s Land, ovvero con la Terra di Nessuno che circoscrive quella porzione di territorio rivendicata da più parti ma lasciata inoccupata a causa delle incertezze che deriverebbero dall’impadronirsene. Si veda al proposito il film omonimo di Danis Tanovic del 2001 ambientato sul fronte del conflitto nei territori della ex-Yugoslavia protrattosi nel decennio tra il 1991 e il 2001.

[12] Ci si riferisce, tanto per fare un esempio tra i tantissimi disponibili, al concreto caso di R.A. che, con madre, padre, nonna e sorellina ha attraversato a piedi da profugo i confini con la Turchia, la Macedonia, la Grecia e l’Albania per arrivare infine via mare in Italia dopo quasi due anni di viaggio tentando di raggiungere fantasticati parenti che qui avrebbero trovato degna sistemazione. Morto il padre nel corso del viaggio, trovata una collocazione provvisoria per la restante famiglia con la prospettiva di impostare un percorso di integrazione sociale, R. viene segnalato dalla scuola al tribunale per i minorenni di Milano (fascicolo n. 23/2020/A) perché si disinteressa alle lezioni, disturba la classe, minaccia i professori che lo riprendono, aggredisce i compagni. Viene classificato come un adolescente «irregolare nella condotta e nel carattere» ai sensi dell’art. 25 R.D.L. 20 luglio 1934, n. 1404.

[13] Per l’economia del presente contributo tralasciamo la fase della senilità.

[14] Come evidenzia la stessa provenienza etimologica del termine infans (privativo del latino fari, parlare), l’infanzia è indicativa di una condizione nella quale ci si comincia ad ingaggiare con i suoni vocali senza avere padronanza della loro funzione nella comunicazione parlata.

[15] Per una rapida introduzione alla socio-semiotica vedi Ventura Bordenca I., Sociosemiotica: teorie, esplorazioni, prospettive, in Marrone G., Migliore T. (a cura di), Cura del senso e critica sociale. Ricognizione della semiotica italiana, Mimesis, Milano, 2020, pp. 23-59.

[16] “Je est un autre” è la formula che ricorre in due lettere della corrispondenza tra Arthur Rimbaud, emblema dell’adolescente fuori controllo, e Georges Izambard, nonché tra il poeta ribelle e Paul Demeny, entrambe del maggio 1871, passata quest’ultima alla storia come “La lettera del Veggente”.

[17] Per una trattazione dell’interpretante, ovvero di quella porzione di materiale mentale soggettiva e incostante che interpreta il segno e lo collega all’oggetto, da distinguersi rispetto alla persona che interpreta, si veda Bonfantini M., Grassi L., Grazia R. (a cura di), Semiotica, Einaudi, Torino, 1980.

[18] Cosmacini G., Storia della medicina e della sanità in Italia: dalla peste nera ai giorni nostri, Laterza, Bari, 2005

[19] Vovelle M., La morte e l’occidente. Dal 1300 ai nostri giorni, Laterza, Bari, 1984.

[20] Secondo studi moderni, la peste nera uccise almeno un terzo della popolazione del continente, provocando verosimilmente quasi 20 milioni di vittime, vedi Cunha Ujvari S., Storia delle epidemie, Odoya, Bologna, 2002.

[21] Foa A., Ebrei in Europa: dalla peste nera all’emancipazione XIV-XVIII secolo, Laterza, Bari, 1992.

[22] I flagellanti furono un movimento cattolico costituito durante il Medioevo da varie sette religiose, rimasto attivo dal XIII al XV secolo. Erano caratterizzati dalla pratica dell’autoflagellazione in pubblico; essa serviva non solo come pratica religiosa e mortificatrice, ma anche come mezzo attraverso cui ottenere da Dio la cessazione di catastrofi, guerre o epidemie. Ebbero il proprio apice proprio in seguito all’esplosione della peste nera: chi vi aderiva doveva, se voleva essere certo della salvezza eterna, farne parte per almeno 33 giorni e mezzo (numero corrispondente agli anni di Cristo). La Chiesa comprese ben presto che stava perdendo il controllo sul movimento, cosicché, nel 1349papa Clemente VI emanò una bolla che vietava il movimento, dichiarandolo eretico.

[23] La diffusione del tema, assieme ad un certo compiacimento nella rappresentazione di scheletri e di morti, è in diretta relazione con la grande peste del 1348. Gli scheletri sono una personificazione della morte, mentre gli uomini sono solitamente abbigliati in modo da rappresentare le diverse categorie della società dell’epoca, dai personaggi più umili, come contadini e artigiani, ai più potenti, come l’imperatore, il papa, i principi e i prelati. Esprime una visione più individualistica della morte e talvolta anche una certa ironia nei confronti delle gerarchie sociali dell’epoca.

[24] Si veda al riguardo la ricca trattazione in: Levi G., Schmitt J. C., Storia dei giovani. Vol. I, Dall’antichità all’età moderna, in particolare ivi, Un fiore del male: i giovani nelle società urbane italiane, (secoli XIV-XV), pp. 211-278.

[25] Si veda AA.VV., La storia. Vol. VI, Dalla crisi del Trecento all’espansione europea, Biblioteca di Repubblica, Roma, 2007.

[26] Vengono destinate aree delle città al confinamento dei contagiati con l’apertura dei lazzaretti, veri e propri territori ad altissima morbosità dedicati all’attesa della morte e allo smaltimento dei residui (corpi, vesti ed oggetti) per incenerimento.

[27] I dati demografici qui riportati sono esposti nell’ampio e documentato lavoro di Naphy W. e Spicer A., La peste in EuropaIl Mulino, Bologna, 2006, p. 26.

[28] Come noto, il Decameron è una raccolta di cento novelle scritta da Giovanni Boccaccio tra il 1349 (anno successivo all’epidemia di peste nera in Europa) e il 1351 costituendo con ciò non soltanto una straordinaria opera letteraria, ma una sorta di cronaca diretta dell’epoca. Si è fatto riferimento all’edizione: Boccaccio G., Decameron, UTET, Torino, 2012.

[29] Fu necessario attendere oltre due secoli prima che fosse autorizzata la stampa nel 1573 di una copia ufficiale del Decameron passata al vaglio dell’Inquisizione intervenuta con varie rassettature sul testo. Peraltro, anche quella prima edizione venne immediatamente ritirata per effetto di una nuova censura che impose un ulteriore lavoro di revisione dell’opera protrattosi per altri dieci anni.

[30] Pur essendo più elevato il tasso di mortalità della peste nera (posizionato circa al 30% dei contagiati), la numerosità dei deceduti a causa dell’influenza spagnola è stata molto superiore in ragione dell’esponenziale crescita riscontrata nella popolazione mondiale, arrivata alla soglia dei 2 miliardi. Pur non trovando univocità di computo, le stime più accreditate si attestano su un valore di 50 milioni di morti; Patterson K. D. e Pyle G. F., The geography and mortality of the 1918 influenza pandemic, in Bulletin of the History of Medicine, vol. 65, n. 1, 1991, pp. 4-21; Taubenberger J. K. e Morens D. M., 1918 Influenza: the Mother of All Pandemics, in Emerging Infectious Diseases, vol. 12, n. 1, 2006-1, pp. 15-22.

[31] Secondo le più accreditate tesi, i segmenti genetici della Spagnola sarebbero derivati da un virus aviario che, facendo un salto di specie noto anche come spillover, sarebbe passato dalla popolazione animale ad alta prevalenza di patogeni, cosiddetta “serbatoio”, alla popolazione ospite, quella umana, destabilizzandone i sistemi immunitari, vedi: Mills C. E., Robins J. M. e Lipsitch M., Transmissibility of 1918 pandemic influenza, in Nature, vol. 432, n. 7019, 2004-12, pp. 904 ss.

[32] Peraltro, la Spagnola ha avuto tre onde distinte: la primavera del 1918, l’autunno del 1918 e l’inverno del 1918-1919. Essendosi il conflitto mondiale conclusosi nel novembre 1918, si può constatare la quasi totale sovrapposizione temporale tra eventi bellici ed eventi pandemici.

[33] In particolare deve ricordarsi Rousseau J. J., Émilie o dell’educazione, Rizzoli, Milano, 2009

[34] In effetti, secondo le intenzioni dell’Autore avrebbe dovuto trattarsi di una quadrilogia, della quale però Lev Tolstoj non scrisse mai l’ultimo libro, quello dedicato alla ‘Maturità’; Tolstoj L., Infanzia. Adolescenza. Giovinezza, Rizzoli, Milano, 2021.

[35] Interessante al riguardo è richiamare gli studi biologici di Stephen Jay Gould che hanno indicato nell’homo sapiens l’organismo più neotenico di tutti, essendo l’unico nel quale i tratti infantili tendono a persistere anche durante la vita adulta. Si veda Gould S. J., La struttura della teoria dell’evoluzione, Codice Edizioni, Torino, 2012; richiamato anche da Bertollini A., Del puerilismo, pp. 17-32, in Mazzeo M. e Bertollini A. (a cura di), Sintomi. Per un’antropologia linguistica del mondo contemporaneo, DeriveApprodi, Roma, 2023, scaricabile gratuitamente dal sito www.machina-deriveapprodi.org.

[36] Si usa non a caso il termine “ortopedia”, che in origine era riferito al solo trattamento dell’apparato locomotore dei bambini, per sottolineare il collegamento del termine greco ortho (che significa dritto, eretto) con paideia (ovvero il modello pedagogico, ciò che ha a che fare con l’educazione).

[37] Cosmacini G., Medicina e sanità in Italia. Dalla Spagnola alla Seconda guerra mondiale, Laterza, Bari, 1989.

[38] Il 99% dei decessi per influenza pandemica avrebbe riguardato persone sotto i 65 anni e in particolare, nella quasi metà dei casi, giovani di età compresa tra i 20 e i 40 anni. Cfr. Simonsen L., Clarke M. J., Schonberger L. B., Pandemic versus Epidemic Influenza Mortality: A Pattern of Changing Age Distribution, in Journal of Infectious Diseases, vol. 178, n. 1, 1998, pp. 53-60.

[39] In Italia la stima dei morti è stata di 600.000 decessi, si veda Ianni P., Cenni sulla pandemia “spagnola”: riflessioni su alcune fonti d’archivio parlamentari, MemoriaWeb – Trimestrale dell’Archivio storico del Senato della Repubblica – n. 30 (Nuova Serie), giugno 2020, p. 3.

[40]Coronavirus Toll: Cases & Deaths by Country, Historical Data Chart – Worldometer, accessibile su: worldometers.info.

[41] COVID-19 Coronavirus Pandemic, accessibile su worldometers.info.

[42] I dati ISTAT per il periodo di riferimento anni 2020, 2021 e gennaio 2022 computano per l’Italia 145.334 morti su 10.953.342 contagiati, con un’incidenza di mortalità dell’1,3%. Vedi https://www.istat.it/it/archivio/266884

[43] Dallo 0,004% per i minori di 34 anni al 28,3% per i maggiori di 85, vedi: Levin A. T., Hanage W. P., Owusu Boaitey N., Assessing the age specificity of infection fatality rates for COVID-19: systematic review, meta-analysis, and public policy implications, in: European Journal of Epdemiology, vol. 35, n. 121, 2020, pp. 1123-1138.

[44] Questa stessa operazione di messa in sospensione dell’adolescenza con l’enfatizzazione in sua vece della figura del giovane militarescamente pronto all’arrembaggio avrà poi un suo estremo apice nei Fasci Giovanili di Combattimento e nelle organizzazioni di pedagogia disciplinare del Ventennio fascista, così come nell’apologia della Gioventù hitleriana e nell’esaltazione della forza esuberante giovanile propria dei regimi totalitari.

[45] Impossibile dare anche solo parziale conto della ricchissima letteratura psico-socio-pedagogica sull’adolescenza. Citiamo soltanto Lutte G., Psicologia degli adolescenti e dei giovani, Il Mulino, Bologna, 1987; Marcelli D., Braconnier A., Psicopatologia dell’adolescente, Masson Milano,1994; Galimberti U., L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano, 2007; Shaffer D. R., Kipp K., Nicolais G., Mirandola C., Psicologia dello sviluppo. Infanzia e adolescenza, Piccin Nuova, Padova, 2015.

[46] Facebook è stato creato il 4 febbraio 2004; il lancio di Instagram è avvenuto il 6 ottobre 2010.

[47] Termine proposto da Luciano Floridi con l’analogia della Società delle Mangrovie: «[…] Vorrei descrivere la nostra società come la società delle mangrovie. […] Le mangrovie crescono in un clima meraviglioso dove il fiume (di acqua dolce) incontra il mare (di acqua salata). Ora immaginate di essere in immersione e qualcuno vi chiede: “L’acqua è salata o dolce?”. La risposta è che: “Mio caro, non sai dove siamo. Questa è la Società delle Mangrovie. È sia dolce che salata. È acqua salmastra”. Quindi immagina che qualcuno ti chieda oggi: “Sei online o offline?”. La risposta è: “Mio caro, non hai idea di dove ti trovi. Siamo in entrambi”», vedi: Floridi L., Soft Ethics and the Governance of the Digital, in Philosophy & Technology, vol. 31, Springer, 2018, pp. 1-8. Di Luciano Floridi si veda anche: Floridi L., La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Cortina, Milano, 2017.

[48] Basti pensare all’effetto delle riprese video con le bare caricate sui camion dell’esercito e trasportate lontano in processione militare, oppure alle dichiarazioni governative a reti televisive unificate delle misure eccezionali dettate dallo stato di emergenza.

[49] Sulla semiotica del corpo, vedi: Greimas A., Fontanille J. & J., Marsciani F., Semiotica delle passioni, Dagli stati di cose agli stati d’animo, Bompiani, Milano, 1996.

[50] Vedi: Villani T., Corpi mutanti. Tecnologie della selezione umana e del vivente, Manifestolibri, Roma, 2018.

[51] Interessanti in questa direzione le sollecitazioni cliniche proposte da Barbetta P., Linguaggi senza senso. Clinica transculturale, Meltemi, Roma, 2023.

[52] Demos (δῆμος) è il popolo, epidemia (ἐπί) è «sopra il popolo, nel popolo» e pandemia è «in tutto il popolo», ma sindemia (σύν) vorrebbe dire «insieme al popolo». Questo nuovo approccio alla salute pubblica, ormai condiviso da molti scienziati, è stato elaborato nel 1990 da Merril Singer, antropologo medico e professore di Medicina di comunità presso l’Health Center dell’Università del Connecticut, noto per le sue ricerche sull’abuso di sostanze, sull’HIV/AIDS, sulle disparità sanitarie e sulla salute delle minoranze. Si vedano: Singer M., Introduction to Syndemics: a critical systems approach to Public and Community; John Wiley & Sons Editor, 2009; Singer M., Anthropology of Infectious Disease, Left Coast Press, 2015.

[53] Dal greco καταστροϕή: rivolgimento, rovesciamento, capovolgimento.

[54] Anders G., L’uomo è antiquato, 2 voll., Bollati Boringhieri, Torino, 2007.

[55] Virilio P., La bomba informatica, Cortina, Milano, 2000.

[56] Vedi Girard R., Il capro espiatorio, Adelphi, Milano, 2020.

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