“Adolescence”: non stiamo centrando il punto

RIFLESSIONI E CONSIDERAZIONI

di Monica Facciocchi

Il mondo adulto è sconvolto da una serie in streaming che pare tacciare i social e i nuovi linguaggi degli adolescenti come pericolosi e insensati. Ed eccoci a chiederci: cosa sono gli incel? Cosa sono le red pills? Come poter comprendere i sistemi di significato in cui si muovono i ragazzi e le ragazze (o ragazz3?) oggi? Ecco, forse non stiamo centrando il punto.

Sono una millenial e la mia è stata la prima generazione digitale: usavamo Messenger e Netlog, giocavamo ai primi GDR online e i miei genitori non sapevano certo che cosa si facesse su quelle piattaforme o a cosa servissero per la precisione. Non ci è mai stato chiesto cosa volesse dire quello che facevamo e nemmeno noi, in realtà, sapevamo bene ciò che stavamo facendo: mettere ottocento emoji dopo il nome su Messenger che in genere ErA sCriTtO CoSì aveva un significato per noi, fare uno squillo al cellulare aveva un altro significato ancora, farne tre un altro. C’erano gli emo, i truzzi, i metallari, i gabber, gli sfattoni. Le adolescenze hanno sempre utilizzato linguaggi, simboli, immagini, stili propri e inaccessibili al mondo adulto: è legittimo, è corretto che questi codici siano per noi inaccessibili e incomprensibili, è ciò che identifica una generazione, nella misura in cui, appunto, struttura delle identità diverse dalla nostra. Le adolescenze sono e resteranno molteplici e ammantate di insensatezza per l’adulto, ciò che ci deve preoccupare è che non diventino insignificanti.

I social sono certamente amplificatori e dilatatori della violenza, ma le radici di essa vanno ricercate offline: in un’adultità profondamente in crisi, in un’adolescenza senza bussole, in un mondo che frammenta e oggettifica, in cui costruirsi come soggetti diviene qualcosa di estremamente complesso. Il mondo là fuori arriva in tutta la sua dirompenza nelle camere degli adolescenti, dietro schermi che amplificano tutto ciò che avviene nel mondo reale – «ma lui era in camera sua, vero? Pensavamo fosse al sicuro, no?» – e non possiamo impedirlo: ciò che però possiamo fare e non stiamo facendo come genitori, come adulti di riferimento, è offrire gli strumenti per tradurlo, per filtrarlo, per significarlo altrimenti, per raccontarcelo. Le inquadrature della serie “Adolescence” e i corpi dei personaggi in scena ci mostrano qualcosa che ritorna ricorsivamente: l’incomunicabilità. Questa incomunicabilità non è tanto legata al linguaggio dell’emoji – che non viene compreso – ma al fatto che non sia avvenuto un processo formativo di traduzione, il quale si può giocare solo a partire dalla differenza, dal rapporto con una diversità che è generazionale, di genere, etnica, culturale: è inscritta nell’essere soggetti. Ciò che nella pellicola scorre sottotraccia è la cristallizzazione dell’adulto in copioni e ruoli compartimentati che in rapporto all’adolescenza contemporanea esplodono in un cortocircuito straziante, angosciante, disorientante.

Il padre di Jamie si volta dall’altra parte quando il figlio sbaglia a calcio e viene preso in giro dai coetanei. Questo sguardo assente è svalutante rispetto a tutta quella che è la personalità che – precisamente in adolescenza – si va strutturando nel ragazzo. È come se quello sguardo dicesse: “non sei abbastanza, non sei come io ti voglio e perciò non meriti di essere visto” o almeno, questo è quello che Jamie percepisce. Il padre si volta inizialmente dall’altra parte anche quando si trova davanti al video dell’omicidio compiuto dal figlio, per poi abbracciarlo ma solo nella misura in cui in realtà non ammette davvero la responsabilità dell’atto in capo Jamie – lo farà solo davanti all’affermazione di colpevolezza da parte del figlio, alla fine della serie: è imprigionato nella dimensione legata all’inciso “quello non è mio figlio”, di nuovo, rimarcando quel che per Jamie è il non essere visto che tanto gli è familiare, «Non sono stato io. Non ho fatto niente». “Non sono l’immagine che il video rimanda e di cui sono oggetto: non lo sono”. Alla fine della serie il padre lo dice, dice di non aver visto suo figlio, di non averlo visto per quello che era, o di averlo solo guardato, ma mai osservato: «faceva disegni, era bravissimo, e poi ha smesso di farlo». Il disegno che l’uomo riceve in forma di ritratto per il compleanno, direttamente da Jamie, ora in carcere, porta in controluce un messaggio: “Eccomi. Ecco la mia prospettiva su di te, io ti vedo” – il ragazzo ammetterà la propria colpevolezza relativamente all’omicidio di lì a poco.

Il punto, quindi, non sta nel fatto che l’adulto o il genitore debbano comprendere cosa siano le red pills e gli incel ma che il portato di sofferenza, di identificazione, di stigmatizzazione, di dolore, in una parola di significato connesso a questo universo possa trovare il modo, lo spazio e il tempo di essere comunicato all’adulto. Adulto in grado, dunque, di accogliere il fatto che Jamie non eccella nello sport e che sia estremamente dotato in altro, nel disegno, in storia… che sia diverso da me, genitore, in primis; secondariamente, che lo stesso Jamie abbia la possibilità di percepire nelle figure adulte quello spazio fidato in cui i vissuti di disagio possano essere accolti, ascoltati, comunicati. Un genitore, in questo senso, che possa essere ancoraggio sicuro, una presenza in grado di risignificare quelle esperienze a partire dalle proprie di non essere all’altezza – di quali aspettative? Di chi? –, abbastanza “uomo” – il padre a una certa racconta di un episodio della propria adolescenza in cui si era messo una parrucca rosa sottoponendo a problematizzazione un certo immaginario di “mascolinità” –, di non essere perfetto e di essere talvolta oggetto di scherno da parte degli altri – al ballo della scuola il padre fa uno scivolone davanti a tutti per cui verrà preso in giro, ma questo non gli impedirà di trovarsi una ragazza, di continuare la sua vita e poi di farsi una famiglia. Quali di queste storie sono state raccontate a Jaime dal padre? Quali di queste esperienze narrate per poter risignificare la propria? Quando si tratta di parlare del padre Jaime non sa bene come tradurre la rappresentazione che ha di lui, almeno sino al suo ritratto sul biglietto di compleanno.

L’incomunicabilità risiede in una generazione che non è più legittimata ad esprimere il proprio disagio – che non può star male perché ha tutti gli strumenti per garantire il proprio benessere – e in un mondo adulto che non è più in grado di legittimare e tradurre quei vissuti di disagio a partire dalla propria esperienza. Non stiamo dando le parole agli adolescenti per tradurci la pillola rossa e nemmeno siamo disponibili ad ascoltarle.

Jamie non si definisce mai da sé nel film, è sempre dominato dall’immagine che gli altri calano su di lui: brutto, incapace, indesiderabile. È questo il messaggio che senza filtri gli manda il mondo che gli sta attorno e che viene amplificato dai social. È un’immagine che Jamie assume – letteralmente incorpora – e che non socializza, non esprime e non ha gli strumenti per tradurre, è fuori dal suo controllo: la perdita del controllo è un altro grande tema della serie, dirompente, devastante. È ciò che urla Jamie alla psicologa: «tu non hai nessun controllo sulla mia vita». Siamo sulla scena della terza puntata, Jamie è teso a capire cosa pensi la psicologa di lui, allo stesso tempo cercando da subito di inquadrarla per quello che è partendo da alcune cose che dice, di appiccicarle un’etichetta: «sei una snob». Le domande che lei gli fa sono spiazzanti, insolite, lo mettono a disagio: «L’altra volta mi hai fatto delle domande vere, ora parli solo di cavolate, sembra solo un tranello» «Tu non fai mai delle domande normali». Le domande poste in questa sede sono un nodo che evidenzia due estremi del rapporto di Jamie con questa figura.

Da un lato è la psicologa è la prima che gli chiede “Tu come ti vedi? Tu cosa ne pensi?” e che lo mette nella condizione di esprimere la propria prospettiva, è il primo sguardo che effettivamente vede Jaime e gli chiede di interrogarsi su di sé: per il ragazzo questa cosa è insopportabile, lo manda in crisi, non sa rispondere e quando ci prova cerca continuamente conferma delle rappresentazioni che si sta costruendo nell’altro, conferma che la psicologa dal punto di vista professionale non può offrirgli. Jamie verso la fine del colloquio si apre, prova a rispondere, cerca così tanto l’ospitalità da parte dell’altro che mangia un pezzo del panino con i sottaceti che detesta: è un bisogno spasmodico di essere accolto, ascoltato, accettato. Quando la psicologa chiude il rapporto per Jamie è inaccettabile: dove ha sbagliato? Perché non lo vuole più vedere? È stato adeguato, stava rispondendo alle domande. Di nuovo, la rappresentazione dell’altro a cui corrispondere: “Perché lei ha il potere di chiudere il rapporto e io no? Perché non posso controllare questa cosa?”. L’altro estremo si nota nel momento in cui la donna gli pone davanti le opzioni di rappresentazione che gli altri hanno di lui. Quando Jamie sente il peso di un’immagine che gli viene calata addosso l’unico modo che ha per distanziarsene è eliminarla, distruggerla con rabbia, ucciderla: come se l’immagine non fosse interpretazione, prospettiva, ma verità incorpata. Ed è quello che prova lui stesso, no? Io sono un incel. Per distruggere quell’immagine ti devo eliminare, così non sarò più quello spettro che mi rimandi e in cui mi costringi a impersonificarmi. Katie era piatta, era una troia, era una stronza, una bulla di merda. Katie era e non è più. La realtà, però, è che Katie è morta e Jaime si sente ancora un incel.

Come adulti, dunque, non dovremmo porci il problema di leggere il linguaggio degli adolescenti ma di dare ai significati che questo linguaggio contiene la possibilità di essere detti altrimenti, mutati di forma, dotati di spessore nel lavorio di traduzione con un mondo adulto che possa riprendersi la dimensione formativa nei confronti delle nuove generazioni. Un mondo adulto di cui questa serie mostra le ferite aperte.

Adulti assenti: il professor Malik che a un certo punto si palesa in classe da non si sa bene dove e che alle domande dell’investigatore su Jamie risponde «Io insegno storia, non lo conosco bene. Questi ragazzini sono tremendi, che si aspetta, scusi?»; il padre di Jamie, fuori tutto il giorno per lavoro, “perde di vista” il figlio. Adulti che si disinteressano, che fingono di non vedere: i genitori del migliore amico di Jamie non dicono nulla rispetto all’omicidio e alle visite della polizia a casa. Adulti indifferenti: i problemi del sorvegliante ruotano attorno alla sicurezza della scuola e alle lamentele dei genitori, dei ragazzi poco importa, il supporto psicologico non è necessario; la dirigente pare tentare di uscire da questi schemi se non per dire poco dopo «metti bene la camicia» a un ragazzo di passaggio o «finiscila con le parolacce» davanti a un ragazzino che ride di gusto quando si parla dell’omicidio. Qualche baluardo di ascolto attento lo si ritrova nell’insegnante bionda che parla con l’amica di Katie a scuola, un frangente che scivola rovinosamente nel suggerimento di prenotare un incontro con un analista: “apriti con me, ma non sono io quella che si deve fare carico di tutto questo”, dilatare i confini per poi mettere un muro il momento successivo. Adulti la cui autorità passa per la coercizione: gli arresti da parte dei poliziotti, l’insegnante in cortile che urla «vi posso sospendere senza alcun problema, perché ridete?!» e che stride fortemente con l’affermazione fatta appena dopo dalla dirigente: «gli insegnanti sono tutti sconvolti», ma di sconvolto pare non esserci nessuno, nemmeno il docente che poco dopo grida agli alunni di stare zitti, mettere giù le mani e guardare il video proiettato in aula. Adulti che minimizzano: l’investigatore non dà peso inizialmente alle parole del figlio quando questi gli parla del significato delle emoji su Instagram, «forse stai esagerando». Le carte però poi si ribaltano: è il padre investigatore ad essere imbarazzante e in difficoltà nel rapporto con un mondo di significazioni che non conosce e che non ha mai ascoltato, ciò di cui si parla è serio e può riguardare ogni ragazzo. Allora c’è un avvicinamento, il desiderio e la necessità di interessarsi, di parlare, di pranzare insieme al figlio, di mettersi in ascolto. Adulti che sorvegliano e controllano: le procedure in caserma e a scuola, applicate automaticamente, in modo piatto, meccanico dai più; le file di alunni durante l’evacuazione in cortile si rompono a causa dell’amica di Katie e dell’amico di Jamie che si picchiano e dinanzi a cui, paradossalmente, il problema è ricompattare le file.

Sono una millenial, ma sono anche una pedagogista, un’educatrice, una ricercatrice che studia la violenza delle nuove generazioni, un’adulta e una madre di un’adolescente: questi temi sono radicalmente intrecciati alla mia identità, mi interrogano personalmente e professionalmente, fanno vibrare le corde profonde di un sentire legato a un’esperienza quotidiana, vissuta, partecipata, percepita. Un’esperienza rispetto a cui la visione di questa serie tv mi ha richiesto lo sforzo di fare un passo a lato per osservarla, per interrogarla, per problematizzarla; ha riportato sotto la luce i piccoli gesti quotidiani, i dettagli, gli sguardi: una conversazione nell’abitacolo dell’auto mentre accompagno mia figlia a scuola, le parole dei ragazzi di Rozzano con cui condivido il percorso di pratiche filosofiche, lo sguardo al volto pieno d’amore e di dolore di un genitore che mi racconta la vita con un figlio violento, gli adolescenti che fumano nella carovana del treno, i video sui social di ragazzine che fanno i make-up tutorial, i telegiornali che parlano dell’ennesima baby gang. Cosa sto osservando? Cosa sto facendo? Come lo racconto? Quali domande costruisco? Che storie narro e narrano gli altri? Quali sono le mie e le loro espressioni, i loro e i miei gesti? Che cosa me ne faccio? Come li tratto? Come li accarezzo? Come li abbraccio o li distanzio? Come me ne prendo cura? Queste riflessioni mi riguardano e riguardano tutti e ciascuno. E allora, non stiamo centrando il punto: “Adolescence” non è un discorso sui ragazzi, è un messaggio per noi adulti, un invito a riprendere in mano il mandato educativo che ci spetta.