Foto di Marina Shatskih da Pixabay

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1 Settembre 2024
Massimo Clerici

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Raffaele Bianchetti

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Mauro Croce

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Il primo numero di AdolescenzE: una scommessa culturale su pandemie e guerre

Editoriale

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Fascicolo 01

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In questa fase storica abbiamo vissuto due eventi centrali che tutti – adolescenti in primis – hanno subito senza capacità di previsione e di possibili correzioni in itinere: il primo è il riaccendersi di eventi bellici che si sono localizzati sempre più vicino a noi in termini geografici, ma anche di risonanza emotiva, mentre il secondo è la pandemia da COVID-19.

Per una regione sostanzialmente intatta da guerre da oltre settant’anni il peso di questi eventi ha rappresentato una riscoperta dolorosa e difficile da comprendere che, improvvisamente, oscurava i conflitti locali lontani dall’Europa che non si sono mai spenti dalla seconda guerra mondiale in poi, ma che sono stati vissuti prevalentemente come estranei, come frutto di strategie geopolitiche mondiali che ci erano estranee o che, comunque, non avrebbero influito più di tanto sulla nostra vita quotidiana. Questa estraneità riguardava tutti ma ci sembra di poter dire che riguardava particolarmente una fascia adolescenziale indenne dalla condivisione di eventi lontani – morte, distruzione e povertà – e, soprattutto, da pensieri legati al rischio di essere coinvolti da vicino in un tema, inaccettabile e sconosciuto per loro, che parlava della necessità di doversene fare carico non solo nell’attualità ma ipotecando parte del loro futuro prossimo.

E poi, il COVID-19 che ha riacceso timori atavici amplificandoli: dopo peste, colera, tubercolosi e influenza, soltanto il contagio HIV-correlato, il rischio di sieroconversione per il virus e la conseguente ascesa dell’AIDS avevano coinvolto così pienamente l’umanità ricollocandosi in breve tempo, però, all’interno di una serie di sub-popolazioni molto definite che, se da un lato, non riducevano la drammatica crescita della mortalità correlata, dall’altro sembravano comunque comunicare alla popolazione generale il messaggio che, con gli opportuni accorgimenti, quel rischio di progressiva morbilità e mortalità sarebbero stati confinati tra chi non sapeva proteggersi o non riusciva a comprenderne il senso di pericolosità… Le differenti storie delle comunità omosessuali e dei tossicodipendenti stavano appunto a tracciarne i confini e a favorirne la declinazione con esiti molto differenti.

Poi ci sono state anche l’Ebola e le tipiche malattie diffusive africane con i loro drammi terribili, l’incapacità di difendersi che si spiega soprattutto con la povertà ed il disinteresse del mondo “civile” che guardava altrove senza accorgersi che tra Ebola (o altro) e COVID-19 le differenze erano scarse in termini di conseguenze ma comunque rappresentavano uno stress test “locale” per chi non sarebbe stato in grado da solo di arginare un fenomeno come, successivamente, il COVID-19 lo è stato a livello “universale” per giovani, adulti e anziani.

«Il futuro della medicina in tempi di guerra» – per paragrafare una recente riedizione di un articolo di JAMA (The Journal of the American Medical Association) del 1949, ripubblicato appunto questo febbraio – si lega inevitabilmente al riconoscimento di norme deontologiche ed etiche che rendono “hostes dum vulnerati fratres” e che, a differenza della politica, enfatizzano sempre il rispetto della sofferenza e delle convenzioni umanitarie. I percorsi che ne derivano, non sempre perseguiti in questi anni e, soprattutto, malamente rispettati a tutti i livelli della condivisione sociale, ci indicano però, anche oggi, alcune fondamentali lezioni:

  • la coscienza medica non può essere soggiogata alle esigenze di un governo o di uno Stato, deriva da una sanzione morale superiore e non richiede un obbligo di obbedire, sempre e comunque, ad ordini che possano deprivare il medico della sua missione di cura;
  • questa missione deve sempre essere estesa a tutti, “feriti e malati”, a prescindere dalla loro nazionalità, età, religione, opinione o razza… nessuna autorità può impedire al medico di offrire il proprio aiuto ad un essere umano che lo richieda e ne abbia bisogno;
  • devono essere condannati qualsivoglia metodi “barbarici” – in primis quelli di guerra biologica – che possano arrecare danno alle popolazioni coinvolte in quanto nessun medico può, in alcun modo, cooperare ad atti di distruzione;
  • tali aspetti del codice etico fanno si che lo status legale del medico ne impedisca l’imprigionamento ed il diritto alla sua libertà professionale – a tutela di chi ha bisogno – debba venir salvaguardato in ogni tempo e in ogni luogo1.

A fianco di questi temi, che la guerra in Ucraina ha messo drammaticamente in luce e che hanno colpito inevitabilmente anche bambini ed adolescenti, ci sono poi altri aspetti che attraversano contemporaneamente guerre ed epidemie e che dovrebbero interessarci: tra questi, in primis, la possibilità o meno di praticare la medicina in una cultura ormai radicalizzata dalla politica – «una cultura di guerra ideologica», questa volta parafrasando il NEJM (New England Journal of Medicine) – dove i più giovani e gli adolescenti combattono per la vita, ad esempio visti gli alti tassi di suicidio, tentato suicidio e ideazione suicidaria nella popolazione giovanile transgender a seguito di norme che respingono le necessità di cura a vantaggio di orientamenti radicali generati da legislazioni “culture-war oriented” che limitano l’autonomia clinica a danno dei pazienti.

Al di là di valutazioni contenutistiche di odine legale (incostituzionalità nella realtà americana o di altri paesi), da dove nascono queste considerazioni, peraltro anch’esse enfatizzate sulla più importante rivista medica internazionale?3 Anche questa è una forma di guerra o, quantomeno, anche queste sono condizioni di guerra pur se non vediamo bombe, morti e distruzioni ma risaltano solo le difficoltà al riconoscimento di diritti che la medicina deve garantire o il rispetto di posizioni che l’autonomia medica – in tempi di cambiamenti epocali – deve rilanciare con fermezza.

 «La ricerca clinica produce conoscenze generalizzabili per i futuri pazienti, mentre le regole etiche difendono dall’essere sottoposti a richieste non necessarie o sproporzionate oggi». Ma, nel contempo, la ricerca non si può sovrapporre completamente agli orientamenti della cura che guida il clinico a fare il meglio per quel paziente: nel caso della popolazione adolescente transgender, l’esistenza e l’accettazione di nuove terapie non vuol dire che debbano essere usate su tutti gli interessati ma solo nei casi in cui sia evidente il beneficio medico. Parallelamente, ad esempio, si segnalano studi in ambito pediatrico dove «circa l’80% dei bambini dimessi da reparti pediatrici assumevano almeno un farmaco off-label; anche la chemioterapia pediatrica ed il trattamento radioterapico hanno effetti duraturi sullo sviluppo dei bambini e sulle loro capacità riproduttive, tanto quanto interventi chirurgici possono ledere, sul lungo termine, la salute fisica o psichica di costoro».

Prevenire la degenerazione di queste importanti problematiche in mero dibattito ideologico-politico può contenere anche il dibattito e la legislazione “culture-war oriented” come espressione di una sempre più frequente possibilità di apporre limitazioni alla pratica medica oggi derivanti da forti condizionamenti esterni.

Le epidemie rimangono nel corpo e nella mente di coloro che le hanno vissute

Altrettanto, la piaga dell’epidemia COVID-19 ci fa riflettere sulla storia delle epidemie e su come noi – ancora una volta, in particolare, i giovani – si sia in grado di affrontarle… non sono i decreti a far terminare le epidemie in quanto quest’ultime rimangono nel corpo e nella mente di coloro che le hanno vissute. Quindi, le epidemie non finiscono mai e, se finiscono, quando si può dire che realmente scompaiano in chi le ha vissute?4

L’OMS indica la fine di un’epidemia quando nessun caso viene segnalato per un periodo che raddoppia il tempo massimo dell’incubazione del virus. Ma fino a quando le epidemie rimarranno anche eventi sociopolitici ed epidemiologici che pesano sulla situazione globale, la loro fine – come il loro inizio – continuerà ad essere determinata da criteri esterni, sociali, politici, economici ed etici; le società devono scegliere se riferirsi o meno a strategie – appunto sociali, politiche, economiche ed etiche – per decidere come comportarsi. Purtroppo, «questo approccio determina l’accettazione di morti inevitabili tra gruppi svantaggiati», così come la permanenza di un continuum – in questo caso psicologico – che accompagna la fine della pandemia ma lascia tracce incancellabili su chi l’ha vissuta. è qui che vogliamo di nuovo riferirci agli adolescenti e, soprattutto, alle popolazioni di giovani più fragili che non ricordano di aver vissuto qualcosa di simile prima di loro e non hanno avuto esperienza di quel qualcosa durante la loro vita… Nel percorso odierno che ha inevitabilmente reso “routinaria” la morte, cioè quel tasso di morti che le società possono tollerare, come si sono mossi quei giovani e adolescenti che più difficilmente possono “incorporare” gli aspetti sociali, culturali, economici e “istituzionali” della realtà pandemica e delle dinamiche di morte che l’hanno accompagnata? Quali saranno le loro aspettative sull’esperienza vissuta? Quali le loro richieste future alle istituzioni che li hanno spesso dimenticati in questa esperienza?

«La dichiarazione di fine di un’epidemia marca un punto critico in cui il valore della vita umana diviene una variabile di significato attuale»: cioè, quando il confronto si pone con un’istituzione governativa che determina che i costi sociali, economici, politici di salvare una vita eccedono i benefici di poterlo o volerlo fare, “l’endemizzazione” della pandemia è chiara agli occhi del decisore politico… ma come risponderanno i più giovani e gli adolescenti? Possiamo dire che se ne accorgeranno o no? Che guarderanno altrove nella necessità di dimenticare o si renderanno critici su quanto vissuto e sulle conseguenze – anche dentro di loro – di quanto subito?

Ancora una volta, per parafrasare gli autori del NEJM (New England Journal of Medicine), «questi precedenti storici rendono chiaro che nessuna epidemiologia, ne dichiarazione politica o sanitaria può determinare la fine di un’epidemia, ma piuttosto la normalizzazione della mortalità e della morbilità attraverso una “routinizzazione” della malattia e la sua progressiva endemizzazione che, nel contesto del COVID-19, è stata chiamata “convivere con il virus”. Che cosa determina, allora, la fine di una pandemia? È forse la conclusione scontata, derivante dalla posizione delle istituzioni governative, a dire che la crisi associata alla salute pubblica non fa più paura in relazione alla produttività economica di una società o all’economia globale. Non è dato saperlo con certezza. Chiudere l’emergenza COVID-19 si ricollega quindi ad un complesso processo di potente arbitrato di forze politiche, economiche, etiche e culturali e sicuramente non di un limitato assessment della realtà epidemiologica»: potremmo dire, in sintesi, un simbolico gesto in grado di rassicurare l’opinione pubblica. Ma questo non è forse quello che accade anche per la “chiusura” di una guerra?

Resta da chiedersi, a questo punto, se tutto ciò valga o meno anche per i giovani.

Presentazione dell’indice

Il numero attuale della rivista AdolescenzE si colloca quindi in una cornice “bifronte” con una scelta di campo ben precisa: associare due eventi “storici” imprevedibili e apparentemente lontani quali pandemie e guerre e, nel contempo, leggerli attraverso gli occhi e i problemi dei più giovani, siano essi singoli o collettività.

Ad ogni modo, questa collettività adolescente è unitaria solo in superfice mentre, nei fatti, è costituita da entità estremamente disomogenee e, appunto, trasversali.

Il segnalibro dell’indice del primo numero, che di seguito riportiamo, non fa certo da spartiacque sul tema ma deve essere letto con attenzione al fine di comprendere i “punti” che sono stati toccati grazie ai primi contributi degli Autori che hanno aderito a questa iniziativa.


>>> Per scaricare il fascicolo 1 della Rivista, pubblicato il 1 settembre 2024, clicca qui.

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note

  1. The Future of Medicine in Times of War, J. Voncken, JAMA 19.02.1949, ripubblicato su JAMA 20.02. 2024.
  2. MR Ulrich, Practicing Medicine in the Culture Wars – Gender Affirming Care and the Battles over Clinician Autonomy, The New England Journal of Medicine 390/9, 29.02.2024.
  3. JM Abi-Rached, AM Brandt, Do Pandemics Ever End? The New England Journal of Medicine, 12.11.2023.

Adolescenze – Rivista Transdisciplinare
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